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LESS IS MORE – come applicare questo concetto alle malattie del cuore

Introduzione all’argomento: overdiagnosis and overtreatment in medicina

I decenni passati si sono contraddistinti per un notevole incremento della spesa sanitaria. Tale aumento è costante e percepibile di anno in anno (Figura 1, spesa sanitaria in Italia dal 19 al 2004), ma diventa addirittura eclatante se si confronta quello che in sanità si spendeva negli anni ’70 con quello che si è speso negli anni 2000. Il decuplicamento della spesa non ha tuttavia portato a un altrettanto importante miglioramento della sopravvivenza, che dal 1970 al 2000 è aumentata solo di pochi mesi o al massimo qualche anno (Figure 2 e 3) (1).

Un’altra constatazione utile per introdurci a questo argomento è il fatto che, se è vero che vi è una relazione lineare tra il PIL di ogni Stato e quanto quello stesso Stato spende in sanità, non vi è una relazione altrettanto evidente tra la spesa sanitaria e la sopravvivenza degli abitanti di quello Stato. C’è chi spende in sanità tantissimo per una sopravvivenza media relativamente bassa, come ad esempio gli Stati Uniti, e chi spende in modo più contenuto a fronte di una sopravvivenza decisamente migliore – è il caso del Giappone (Figura 4) (1).

M. Crivellini, nel testo “Sanità e Salute: un Conflitto di Interesse”, scrive “…la sanità ha effetti relativi sulla salute, essendo maggiori gli effetti dell’igiene, delle condizioni di vita, dell’alimentazione e in genere dello stile di vita; anche se non è agevole separare i diversi effetti, alcuni ricercatori hanno stimato che il raggiungimento della longevità dipende per il 20-30% dal patrimonio genetico, per il 20% dall’eco-sistema, per il 40-50% da fattori socio-economici e solo per il 10-15% da fattori strettamente sanitari…” (1). È quindi evidente che migliorare le condizioni igieniche e lo stile di vita della popolazione e correggerne le abitudini alimentari scorrette possa per molti versi essere più efficace nell’aumentare la sopravvivenza media rispetto a una maggiore spesa sanitaria.

Questo sistema sanitario è stato a lungo portato avanti in maniera piuttosto acritica, sino a diventare completamente insostenibile in seguito alla crisi economica che si è verificata in questi ultimi anni, che ha portato alla ridefinizione della spesa sanitaria mediante l’adozione sia di tagli orizzontali alle varie strutture che non entrano nel merito delle procedure cliniche, sia di tentativi di definire l’appropriatezza delle singole prestazioni. In effetti studi effettuati negli Stati Uniti già alcuni anni fa hanno individuato alcune componenti della spesa sanitaria sulle quali un intervento mirato potrebbe portare a un risparmio sostanzioso (quantificabile nel 20% del totale della spesa sanitaria del paese stesso – figura 5). Tali componenti sono le incongruenze nella somministrazione e nel coordinamento dell’assistenza, nel costo dei farmaci, complessità amministrative, frodi e abusi e appunto l’eccesso di trattamento (overtreatment). Quest’ultimo in particolare è stato calcolato in una media di 192 miliardi di dollari nella spesa sanitaria statunitense del 2011, con un presunto progressivo incremento stimato per il 2020 nello 0.5% del PIL degli USA (Figura 6) (2).

Si intendono per overtreatment tutti quei trattamenti che non hanno dimostrato un beneficio incrementale rispetto alla terapia abituale, in genere più economica. All’overtreatment si affianca come parente stretta l’overdiagnosis, ossia eccesso di diagnosi, che indica (conseguentemente all’ampliamento della definizione di malattia) il concetto di diagnosi in una persona altrimenti sana di una malattia non evolutiva, che non sarà mai sintomatica né causa di mortalità precoce. È il caso di tutti i cosiddetti “incidentalomi” che si riscontrano in modo occasionale quando si effettuano esami di imaging come ecografie, TC o RM, e che di conseguenza portano a ulteriori esami di secondo o terzo livello, biopsie, interventi o anche solo alla ripetizione seriale nel tempo dell’esame stesso. Addirittura alcuni tipi di tumore si possono comportare in questo modo (Figura 7) (3). “L’overdiagnosis affibbia l’etichetta di malato alle persone sane, le danneggia esponendole a ulteriori test diagnostici e trattamenti inappropriati, aumenta ansia e stress e concorre allo spreco di preziose risorse che potrebbero essere utilizzate per la prevenzione e la terapia di vere malattie. Gli ampliamenti delle definizioni di malattia possono essere effettuati con una delle seguenti “strategie”: creazione di uno stadio di “pre-malattia” definito a rischio per i soggetti prima considerati normali (ad es. pre-ipertensione, malattia di Alzheimer), abbassamento delle soglie diagnostiche (ad es. ipercolesterolemia, depressione, reflusso gastro-esofageo), disponibilità di nuove tecniche e strategie diagnostiche (ad es. artrite reumatoide, sclerosi multipla, infarto del miocardio)” (N. Cartabellotta) (4,5).

Se è estremamente difficile capire se vi sia stata overdiagnosis nel singolo individuo, è invece relativamente più semplice capire se vi sia stata overdiagnosis nell’ambito di una popolazione. Nel caso dei tumori, ad esempio, si possono comparare i tassi di diagnosi di cancro e morte per quel tipo di cancro nel tempo. Se le due curve crescono progressivamente in modo sovrapponibile si tratta di un reale aumento nell’incidenza del tumore; nel caso invece le nuove diagnosi di cancro crescano nel tempo mentre la morte rimanga stabile, si può configurare il rischio di overdiagnosis: aumenta, sostanzialmente, la diagnosi di forme di cancro a lento o nullo accrescimento che non determineranno mai la morte dell’individuo. Il tumore alla prostata si è comportato in questo modo con l’introduzione del PSA (figura 8). Ovviamente non si può sostenere che tale implementazione non abbia dato alcun beneficio, e non è sempre facile discriminare tra una diagnosi precoce e una overdiagnosis. Nel caso del cancro della prostata vi sono dei rilievi autoptici davvero impressivi da parte degli anatomopatologi della Cleveland Clinic e di Detroit, che esaminarono le prostate rispettivamente di uomini deceduti per tumore della vescica e di uomini deceduti in incidenti, riscontrando una elevatissima prevalenza di tumore della prostata in uomini assolutamente ignari di questo. In particolare, il dieci per cento di ventenni deceduti per incidenti erano affetti da tumore della prostata; tale percentuale saliva all’80% delle persone ultrasettantenni (figura 9). È chiaro che se più di metà delle persone anziane è portatrice di tumore prostatico ma solo il 3% morirà di esso il potenziale per l’overdiagnosis è enorme (3).

Overdiagnosis in cardiologia

In cardiologia il rischio di overdiagnosis è particolarmente presente in tutte quelle condizioni nelle quali nel corso degli anni sono stati abbassati i range di normalità, come l’ipertensione arteriosa (nella quale il limite di normalità è stato portato da 160/95 a 140/90, col tentativo di ridurlo addirittura a 130/80 mmHg nei pazienti diabetici) e l’ipercolesterolemia (nella quale il livello di LDL è sceso fino a 70 mg/dl nei pazienti ad alto rischio) (Figura 10) (3). Ovviamente tali livelli sono stati rilevati sulla base di studi che hanno identificato un aumento del rischio nei pazienti cosiddetti “near normal” rispetto ai soggetti normotesi e normolipemici. Tuttavia è altrettanto evidente che il rischio di un paziente che presenta un valore pressorio, supponiamo, di 145/90 mmHg non sia paragonabile a quello di un paziente con valori pressori di 180/110 mmHg. Quando, quindi, si dice che l’ipertensione arteriosa raddoppia il rischio di infarto e ictus tale asserzione non è parimenti applicabile su entrambi i pazienti citati. Pertanto anche un eventuale trattamento antiipertensivo non avrà lo stesso impatto su tutti i pazienti ipertesi. La popolazione con una entità più lieve di malattia beneficerà del trattamento meno di quelli con anomalie severe (Figura 11) (3). Nel caso dell’ipertensione, ad esempio, se è vero che praticamente tutti i pazienti affetti da ipertensione severa beneficeranno del trattamento, occorrerà trattare diciotto soggetti con ipertensione lieve per far sì che uno solo tragga beneficio dal trattamento. Questo, ovviamente, non vuol dire che tali pazienti non debbano essere trattati, ma che occorra in questo caso considerare e mettere in gioco svariati fattori: economici, effetti collaterali dei farmaci e così via.

Il caso dell’ipercolesterolemia è ancora più eclatante. I livelli di colesterolo totale patologici sono passati da 300 a 240, quindi a 200 mg/dl. Il passaggio da 240 a 200 mg/dl ha coinvolto un’enorme quantità di persone: 42 milioni di persone negli Stati Uniti si sono trovate di colpo affette da iperlipemia, se è vero che 200 mg/dl è quasi il valore mediano di colesterolemia negli statunitensi e che il range 200-240 mg/dl comprende molti più soggetti del range 240-280 mg/dl, e a sua volta questo contiene più soggetti del range 280-320 mg/dl. Una minima variazione nei livelli di normalità può interessare un numero molto elevato di persone, che si ritrovano improvvisamente malate (Figura 12). “Si può notare come cambiare il cutoff aumenti in modo drammatico il numero di persone etichettate come affette da tale condizione (e quindi interessate a ricevere il trattamento). Se questa sia o non sia una buona cosa per gli individui affetti è difficile da definire. Ma non c’è dubbio che questa sia una cosa favorevole per il business. Questi cambiamenti aumentano in modo considerevole il potenziale mercato dei farmaci. Ci sono molte perplessità riguardanti l’indipendenza degli esperti che hanno deciso i limiti di tutte le condizioni che abbiamo discusso. Nove degli undici autori delle nuove linee guida per l’ipertensione avevano ricevuto grant da parte di case farmaceutiche produttrici di farmaci antiipertensivi, e lo stesso otto dei nove esperti che avevano redatto le linee guida per le dislipidemie” (3). La questione economica ovviamente non è l’unica perplessità di cui tenere conto. Alcuni dei pazienti che vengono diagnosticati di una certa malattia grazie all’abbassamento del range di normalità sono effettivamente destinati a sviluppare la malattia: sintomi, complicanze, addirittura la morte. E una parte di essi può essere aiutata dal trattamento iniziato grazie alla diagnosi precoce. Ma come gruppo, i pazienti diagnosticati grazie alle soglie più basse di malattia hanno anomalie più leggere di ogni altro paziente diagnosticato di tale malattia, quindi sono anche a rischio minore di eventi avversi. Alcuni avranno tratto beneficio, la maggior parte sarà stata soggetta a overdiagnosis, e potrà potenzialmente trarre addirittura nocumento dalla diagnosi e dalla conseguente terapia.

È particolarmente esplicativo quanto avviene negli Stati Uniti all’introduzione dell’atorvastatina sul mercato. Vennero resi noti i risultati dello studio ASCOT, condotto su 10305 pazienti nei quali l’atorvastatina consentiva una riduzione degli eventi cardiovascolari del 36%. È ovvio che, con un risultato così eclatante, chi potrebbe negare – e negarsi – l’uso di questo farmaco per una ipercolesterolemia anche lieve? In verità, andando a esaminare più nel dettaglio i risultati dello studio, la riduzione del 36% del numero di eventi era legata al calo dal 3% di eventi nel gruppo placebo all’1.9% del gruppo trattato. Questo vuol dire che su 100 pazienti trattati con il placebo si erano verificati tre eventi cardiovascolari, su 100 pazienti trattati con il farmaco solo due. La riduzione da 3 a 2 rappresenta effettivamente una riduzione degli eventi superiore al 30%, ma di fatto solo 1 paziente su 100 ha tratto beneficio dal farmaco: 97 sarebbero stati bene comunque, e 2 hanno sofferto di un evento nonostante l’assunzione del farmaco. Curiosamente non c’è alcuna differenza tra il 36% di riduzione e il beneficio di 1 solo paziente su 100, ma l’impatto mediatico delle due asserzioni è ben differente, e invita a leggere i risultati degli studi in modo più critico di come siamo sempre stati abituati a fare (6).

Ma l’overtreatment in cardiologia è soprattutto legato al trattamento percutaneo delle varie patologie, in particolare della cardiopatia ischemica stabile e del forame ovale pervio. Nei vent’anni passati siamo stati innegabilmente conquistati da intriganti assiomi quali “meglio una coronaria aperta di una coronaria chiusa”, “meglio una valvola continente di una insufficiente”, “meglio un forame ovale chiuso di uno aperto”. La conseguenza è che siamo portati ad utilizzare i devices senza porci tanti problemi di appropriatezza e di overtreatment ben sapendo tuttavia che l’interventismo acritico non è suffragato da evidenze scientifiche, da trials o da suggerimenti delle linee guida.

La cardiopatia ischemica stabile

Partiamo con la cardiopatia ischemica stabile. I primi trial di confronto tra le varie opzioni terapeutiche risalgono a cavallo tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, quando ancora la terapia con angioplastica era poco diffusa e limitata ai casi di coronaropatia monovasale non coinvolgente l’arteria interventricolare anteriore (IVA). A tali trial, effettuati mediante confronto tra terapia medica e chirurgica, emerse la superiorità della terapia chirurgica nei pazienti a rischio maggiore: trivascolari o affetti da malattia del tronco comune, diabetici, con ridotta funzione sistolica. Nei pazienti a rischio più basso la terapia medica dimostrava un beneficio sovrapponibile se non addirittura maggiore rispetto alla terapia chirurgica (7). Gli anni successivi furono tuttavia contraddistinti dall’esplosione dell’angioplastica come terapia di elezione per tutti i pazienti affetti da cardiopatia ischemica sia instabile che stabile; e nei primi tale vantaggio risulta sicuramente meritato, se è vero che l’angioplastica è un indiscusso caposaldo della terapia dell’infarto miocardico. Questo scenario non può tuttavia essere riproposto in modo acritico nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica stabile. Questi sono pazienti a rischio di mortalità decisamente più basso, nei quali non si è mai dimostrato un reale vantaggio della terapia chirurgica e percutanea rispetto alla terapia medica se non in alcuni sottogruppi piuttosto limitati. Eppure se si va a rilevare il numero di pazienti trattati per via percutanea nelle centinaia di trial condotte negli ultimi vent’anni rispetto a quelli trattati con terapia medica il divario è davvero impressionante (Figura 13), e tanto più è aumentata la quantità di pazienti sottoposti ad angioplastica con impianto di stent nel corso degli anni (Figura 14) (8). È noto che i risultati delle metanalisi debbano essere presi con le pinze, ma trattandosi di un numero di trial esorbitante non possiamo ragionare altro che sulle metanalisi per avere uno sguardo d’insieme. E quello che ne risulta è che, considerati i pazienti nel loro insieme, non è mai stato rilevato alcun vantaggio della terapia percutanea rispetto alla terapia medica; né quando il confronto è stato tra l’angioplastica tradizionale e la terapia medica; né dopo l’introduzione degli stent, siano essi metallici o medicati. Non si è notata una riduzione della mortalità (Figura 15) (9-13) né dell’insorgenza di infarto, anzi in quest’ultimo caso molti trial propendono per un vantaggio della terapia medica (Figura 16) (9-13). Esiste solo una metanalisi, pubblicata nel 2014, nella quale gli stent di ultima generazione (e solo essi) presenterebbero un vantaggio rispetto alla terapia medica (8), ma tale metanalisi è stata molto criticata per l’utilizzo esteso ed indiscriminato di confronti indiretti, senza i quali i risultati della metanalisi sarebbero risultati sovrapponibili alle precedenti (14-15). In un outcome tuttavia la terapia di rivascolarizzazione, sia essa chirurgica o percutanea, risulta vantaggiosa rispetto alla terapia medica, ed è (come logico) il miglioramento dell’angina. Le linee guida americane del 2012 hanno recepito questo messaggio e propongono la terapia percutanea sempre e solo quando vi sia un’angina “intrattabile”, cioè persistente nonostante l’utilizzo di tutti i farmaci atti al controllo dell’angina stessa (Figura 17) (16). Lo studio più noto in questo senso, e che ha fatto maggiormente scalpore, è stato il Courage, ma ha unicamente riproposto gli stessi risultati da molti altri trial effettuati in precedenza (17). Purtroppo nonostante questi risultati una buona parte dei pazienti affetti da cardiopatia ischemica stabile, soprattutto nelle zone con maggiori risorse sanitarie, viene trattata con angioplastica anziché con terapia medica, e non riceve sufficienti spiegazioni in tal senso: vari studi basati su questionari distribuiti ai pazienti, ai loro medici curanti e ai cardiologi interventisti, documentano che la maggior parte dei pazienti è convinta di essere sottoposta a una procedura d’emergenza anziché d’elezione, una procedura che salva loro la vita e che evita loro un infarto; solo una minoranza sa che in effetti è una procedura con l’unico vantaggio di migliorare l’angina e l’esito dell’ecg da sforzo (Figura 18)(18-23). E dopo il Courage, nonostante il battage mediatico che ha accompagnato tale studio, migliora la consapevolezza dei medici ma non l’informazione ai pazienti (Figura 19) (18).

Con queste premesse non ci si può stupire che il trattamento della cardiopatia ischemica stabile sia diventato ospite fisso della rubrica “Less is more” del British Medical Journal, con numerosi editoriali e revisioni critiche che hanno talvolta trasceso sino a diventare esse stesse inaccettabili (“if less is more, how much is zero?”) (24-27), ma che di fatto si sono in genere basate su un dato incontrovertibile, e noto sin dai tempi dello studio AVERT di confronto tra atorvastatina e angioplastica (28): sarebbe opportuno che l’approccio dei cardiologi di fronte al trattamento diventasse un po’ meno meccanico e un po’ più metabolico (29). D’altronde risale al 2004 il geniale studio di Hambrecht, che arruolò cento pazienti affetti da stenosi coronarica critica determinante una condizione clinica di cardiopatia ischemica stabile e li divise in due gruppi: il primo venne trattato con angioplastica e poi licenziato senza particolari raccomandazioni, il secondo venne trattato con terapia medica senza ricanalizzare la coronaria ma venne obbligato a un’attività fisica moderata basata su venti minuti quotidiani di cyclette. Dopo un anno 15 pazienti su 50 del primo gruppo e solo 6 su 51 del secondo gruppo avevano accusato un ulteriore evento cardiaco, a testimonianza della netta supremazia di un approccio basato sulle modificazioni dello stile di vita rispetto a un approccio prettamente meccanico (Figura 20) (30). Il Courage dopo qualche anno non fece che ribadire tale superiorità, costringendo il gruppo trattato con terapia medica a uno strenuo controllo dei fattori di rischio, con il raggiungimento di livelli target di colesterolo e pressione da parte di una grande maggioranza dei pazienti.

La polemica alimentata dalla rubrica “Less is more” del British Medical Journal è arrivata a proporre la terapia dell’angina stabile con impianto di stent come un trattamento potenzialmente nocivo e a inserire questa notizia come una delle dieci più importanti notizie mediche dell’anno 2013 sul notissimo sito Medscape (31); del resto a favore di una presunta tendenza degli stent a sviluppare neoaterosclerosi stanno alcune evidenze istologiche e basate sull’OCT (optical coherence tomography) in base alle quali a livello degli stent nel corso degli anni si instaura una reazione infiammatoria con presenza di cellule muscolari lisce, collagene, macrofagi e metalloproteinasi, e la formazione di neointima a livello degli stent metallici è simile all’aterosclerosi che si verifica nei vasi nativi, laddove tuttavia un fenomeno che a livello dei vasi nativi si verifica in 40 anni a livello degli stent si rileva dai 3 ai 16 anni dopo l’impianto (Figura 21) (32-34).

Di fatto questo è un modo estremamente distorto di vedere le cose. Infatti occorre puntualizzare che sottostudi dei trial sopra segnalati, come il Courage, hanno identificato alcune categorie di pazienti che, pur in presenza di stabilità clinica, traggono beneficio da una terapia di rivascolarizzazione rispetto alla terapia medica: e sono quelli affetti da angina pectoris intrattabile, come già precedentemente segnalato, e quelli affetti da un’area ischemica estesa, identificata come maggiore del 10% (Figura 22) (35). I pazienti con ischemia estesa, sostanzialmente, presentano una mortalità maggiore in terapia medica rispetto a quella interventistica; la ricerca dell’ischemia diventa quindi fondamentale prima di proporre al paziente un approccio interventistico, che questa venga fatta con metodiche di medicina nucleare come la scintigrafia oppure, come negli studi più recenti, con Doppler Flow Wire. Questa evidenza è stata recepita dalle linee guida della Società Europea di Cardiologia del 2013 (Figura 23) (36). Il problema a questo punto è che buona parte dei pazienti arrivano allo studio coronarografico senza prima una valutazione di ischemia. In uno studio pubblicato su JAMA nel 2008 (quindi già successivo alla pubblicazione del Courage) solo il 44% dei pazienti Medicare arrivava all’angiografia coronarica con una documentazione di ischemia; più della metà ne era priva. L’analisi dei sottogruppi rivelava che la condizione clinica che più spesso si associava alla mancata ricerca di ischemia era il fatto di essere già stati sottoposti in precedenza a una procedura di rivascolarizzazione percutanea. In definitiva, chi viene trattato con angioplastica per una condizione di cardiopatia ischemica stabile entra in un circolo vizioso per cui alla prima ricomparsa di angina viene di nuovo ricondotto nel laboratorio di emodinamica senza ulteriori indagini non invasive o tentativi di terapia farmacologica. Curiosamente, dallo stesso studio emerge che i medici che ricanalizzano i pazienti in assenza di valutazione di ischemia sono proprio quelli più esperti: a più alto volume di procedure (probabilmente in quanto si sentono più sicuri di ciò che fanno) e di età compresa tra i 40 e i 69 anni (Figura 24) (37-38).

Occorre particolarmente stressare il concetto di terapia medica ottimale. Come già sopra segnalato l’ottenimento di una sostanziale equivalenza nell’outcome tra terapia interventistica e terapia medica è al prezzo di un atteggiamento molto aggressivo sia dal punto di vista farmacologico sia come controllo dei fattori di rischio. Per terapia medica ottimale si intende un atteggiamento omnicomprensivo che comprende farmaci, stile di vita, alimentazione e attività fisica (17). Se anziché una terapia medica ottimale si prescrive una terapia routinaria, infatti, il confronto cessa di essere paritario e la rivascolarizzazione consente l’ottenimento di un risultato migliore (39). E parecchi studi rilevano come sia difficile non solo l’ottenimento di una terapia medica ottimale, ma anche la sua persistenza. Infatti la compliance a lungo termine di betabloccanti, ACE-inibitori e statine cala significativamente nei primi anni dopo un infarto miocardico acuto (Figura 25) (40); i betabloccanti vengono spesso sottodosati dopo un evento acuto (Figura 26)(41) e qualora alla dimissione non si sia raggiunto il dosaggio target del betabloccante, questo frequentemente non verrà più titolato né dal medico di famiglia né dal cardiologo del territorio (Figura 27) (41). Per migliorare l’aderenza del paziente è stato proposto con successo da alcuni studi un counselling durante il ricovero e pre-dimissione da parte del farmacista dell’ospedale, cosa che nella realtà ospedaliera italiana è di difficile esecuzione, ma che ancora una volta testimonia di come il colloquio col paziente, sia esso per spiegare il tipo di trattamento, i benefici attesi, i rischi e le possibili alternative, sia esso per spiegare il significato e l’importanza della terapia medica e dei singoli farmaci che la compongono, migliora sensibilmente l’outcome del paziente. (42)

Il forame ovale pervio

Se il trattamento percutaneo della cardiopatia ischemica stabile è l’esempio di overtreatment quantitativamente più rilevante, dato che vengono effettuate 340000 procedure di angioplastica nell’angina stabile negli Stati Uniti in un solo anno, il trattamento percutaneo della pervietà del forame ovale è l’esempio più eclatante benché meno rilevante quantitativamente.

L’argomento è noto: dagli anni ’90 esistono evidenze per cui la presenza di pervietà del forame ovale è in grado di spiegare alcuni degli eventi ischemici cerebrali che rimangono senza una causa accertata. Sin dall’inizio, a favore di questa tesi venivano segnalati casi di trombi serpiginosi a cavaliere tra l’atrio destro e l’atrio sinistro, provenienti dalle grosse vene, nell’atto del passaggio attraverso il forame ovale. È intuitivo che, una volta passati nell’atrio sinistro, questi trombi possano embolizzare nel sistema arterioso e quindi potenzialmente raggiungere il circolo cerebrale.

Negli anni 2000 ci si è spinti più in là, ed è stata trovata addirittura un’associazione tra la pervietà del forame ovale e le crisi di emicrania. Ben presto sono state sollevate delle obiezioni a questa tesi: 1) il forame ovale pervio è presente nel 20% della popolazione, vale a dire un individuo su cinque 2) l’emicrania è malattia molto diffusa dovuta ad una molteplicità di fattori, tra cui molto probabilmente “anche”, ma non “solo”, la pervietà del forame ovale 3) il forame ovale pervio è effettivamente responsabile solo di una minima parte degli eventi ischemici cerebrali criptogenetici; ben più frequente, e ben più difficile da scoprire, può essere il caso di una fibrillazione atriale parossistica, che po’ sfuggire anche a ripetuti e prolungati monitoraggi elettrocardiografici … I trial che sono stati disegnati per risolvere il contenzioso non hanno mai dato risultati nettamente favorevoli alla chiusura percutanea rispetto alla sola terapia medica; anzi nel caso del trial MIST (43), effettuato su pazienti affetti da emicrania, non si è proprio raggiunta la significatività. Le linee guida conseguentemente non hanno mai recepito appieno l’utilità della chiusura percutanea del forame ovale, tranne in alcune caratteristiche di nicchia, eppure la metodica viene ampiamente praticata ormai da vent’anni talora con casistiche di numerosità simile a un’epidemia.

Negli ultimi anni in particolare tre studi internazionali hanno, uno dopo l’altro, affossato inesorabilmente la chiusura percutanea: il “CLOSURE”, il “RESPECT” e il “PC TRIAL” (Figura 28)(44-46). Tre studi che hanno dato tutti lo stesso risultato: la chiusura percutanea non ha raggiunto l’obiettivo primario di riduzione di eventi ischemici rispetto alla sola terapia medica. In effetti le curve di sopravvivenza libera da eventi per il gruppo trattato con chiusura percutanea e per il gruppo trattato con terapia medica divergono leggermente a favore della chiusura percutanea, ma è talmente scarso il numero di eventi che per raggiungere la significatività occorrerebbe includere nello studio un numero di pazienti improponibile. Stupisce in ogni caso che anche una metanalisi dei tre studi (47) non sia riuscita a raggiungere la significatività a favore della chiusura percutanea (Figura 29)… anzi, a ulteriore scorno per la terapia interventistica, la chiusura percutanea è stata gravata dalla comparsa di una percentuale molto maggiore di casi di fibrillazione atriale di nuova insorgenza… complicanza certo non letale ma fastidiosa per il paziente, costosa in termini di consumo di risorse (terapie profilattiche, anticoagulanti, cardioversioni) e per di più responsabile essa stessa di ictus cerebri con frequenza molto maggiore rispetto al PFO stesso… Il rischio è che ci si sottoponga a chiusura del forame ovale per evitare di sottoporsi alla terapia anticoagulante (nei confronti della quale la chiusura percutanea non ha mai manifestato una superiorità) e proprio per questo si vada incontro a una fibrillazione atriale che richiede essa stessa la terapia anticoagulante (Figura 30). Allo stesso risultato è giunta l’autorevole analisi Cochrane, per cui l’analisi combinata dei trial randomizzati recenti non ha documentato una differenza statisticamente significativa tra la chiusura percutanea e la terapia medica, nonostante il device Amplatzer abbia mostrato un trend protettivo favorevole, al prezzo tuttavia del già citato aumento della fibrillazione atriale (48).

A testimoniare quanto ormai la medicina non riesca più a essere svincolata da interessi commerciali ed economici, la semplice notizia che uno degli studi citati aveva fallito nel raggiungere l’obiettivo primario ha provocato il crollo in borsa della NMT Medical, ditta produttrice del device in questione, e il conseguente fallimento dell’azienda e licenziamento dei dipendenti (Figura 31).

Questa apparente inefficacia delle procedure di chiusura percutanea dei PFO crea perplessità e sconcerto anche in chi è meno incline all’aggressività, e come per l’angioplastica nella cardiopatia ischemica il rischio che si corre è che si butti il bambino insieme all’acqua sporca, ovvero che si neghi l’innegabile utilità del trattamento percutaneo in certi selezionati casi. Nel caso del forame ovale pervio, ad esempio, esistono pazienti affetti dalla sindrome platipnea/ortodeoxia completamente dipendenti dall’ossigenoterapia, ai quali la chiusura del PFO può determinare un netto miglioramento delle proprie condizioni di salute e dell’ossigenazione (49). Sarebbe una sciagura quindi se tale procedura venisse indiscriminatamente e in modo generalizzato abbandonata dati gli sconfortanti esiti dei trial.

Ma perché nessuno di questi studi è riuscito a raggiungere la significatività, nonostante sia evidente che i dispositivi occlusori percutanei siano efficaci nel chiudere completamente il PFO eliminando quindi la possibilità di passaggio di un trombo dal settore destro al settore sinistro? Il motivo è che PFO è presente in una grossa fetta di popolazione ed è (fortunatamente) di fatto responsabile solo in minima parte degli ictus criptogenetici; pertanto la casistica può essere “contaminata” da ictus che riconoscono una causa diversa, ancorché non riconosciuta. Uno studio italiano (50) che riporta una numerosa casistica di Brescia (primo autore Faggiano), e i cui risultati ricalcano quelli dei tre studi precedenti, ci fa notare in modo illuminante che solo l’11% delle procedure era stata condotta per una indicazione conforme alle linee guida (cioè ricorrenza di più episodi di stroke o TIA). Il restante 89% (ottantanove per cento!!!) dei PFO era stato chiuso dopo un primo stroke, un primo TIA, o in seguito a emicrania, o addirittura nel 29% dei casi in prevenzione primaria (Figura 32). È evidente che se vengono trattati pazienti nei quali non vi è una indicazione chiara al trattamento, l’efficacia del trattamento stesso potrà essere “annacquata” e lo studio faticherà a raggiungere la significatività, pur in presenza di numerosità del campione sicuramente superiore. Anche la stampa rischia, quando qualche personaggio “noto” viene sottoposto alla chiusura del forame ovale, di divulgare messaggi scorretti. Basti ricordare il clamore suscitato dalla procedura di chiusura alla quale è stato sottoposto il noto calciatore Cassano. Spesso sull’onda del clamore sui media che hanno presentato il forame ovale come un “killer silenzioso” sono stati i pazienti stessi a chiederne la chiusura, ansiosi di poter evitare in tal modo un ictus potenzialmente devastante.

Le aziende nel frattempo spingono la loro informazione sempre di più sui miglioramenti tecnologici dei loro devices scotomizzando completamente tutte le incertezze che ancora abbiamo circa questo trattamento, spingendo i cardiologi interventisti più aggressivi a non tener conto delle Linee Guida a ad effettuare la chiusura anche in prevenzione primaria, cioè su soggetti sani e asintomatici, pur in totale assenza di indicazione delle linee guida.

Se invece si rivalutassero attentamente i sottogruppi dei tre studi che abbiamo citato sopra (RESPECT, CLOSURE e PC TRIAL) si potrebbero cogliere dati che dimostrano come alcune categorie di pazienti possano realmente giovarsi della chiusura percutanea: età inferiore ai 45 anni, pregressi eventi cerebrovascolari documentati, shunt severo e aneurisma della fossa ovale. In questi pazienti in effetti le curve di sopravvivenza libera da eventi divergono maggiormente (Figura 33). È quindi possibile che se venissero inclusi solo pazienti con queste caratteristiche, un eventuale trial potrebbe dare una significatività a favore della chiusura percutanea rispetto alla sola terapia antiaggregante (ma sempre, ricordiamocelo, una sostanziale equivalenza rispetto alla terapia anticoagulante).

In questi ultimi mesi è stato presentato il follow up dello studio Respect, nel quale a 10 anni (follow-up medio 5.5 anni) il braccio trattato con chiusura percutanera ha dimostrato una superiorità rispetto al braccio terapia medica, più che altro grazie a un curioso crollo occorso al braccio conservativo tra i 9 e i 10 anni dall’arruolamento (Figura 34) (51). E’ in ogni caso interessante che anche al follow-up a lungo termine i maggiori benefici siano legati alla presenza di uno shunt destro-sinistro severo e di un aneurisma del setto interatriale. Sarebbe quindi estremamente interessante uno studio limitato alla prevenzione secondaria su queste categorie “di nicchia”. Ma il trial in questione avrebbe bisogno di coinvolgere molti centri e il periodo di arruolamento dovrebbe essere molto lungo, dato il bassissimo numero di eventi che contraddistingue questa patologia.

In effetti, nonostante questi ultimi più lusinghieri risultati, occorre infine segnalare un recentissimo (fine luglio 2016) “warning” dell’American Academy of Neurology che ammonisce sull’utilizzo indiscriminato della chiusura percutanea del PFO, che ritiene ingiustificata fatte salve pochissime eccezioni e sottolinea l’importanza di una corretta educazione del paziente affinché egli stesso non ne richieda l’effettuazione; inoltre sulla base degli studi più recenti come il PICSS study consiglia una terapia antiaggregante e non anticoagulante con warfarin, sebbene si ritenga interessante per il futuro il possibile utilizzo dei nuovi anticoagulanti orali (inibitori del fattore X e diretti inibitori della trombina) (52).

La TAVI, all’esordio

Una tecnologia brillante e rivoluzionaria come la TAVI, ovvero la sostituzione percutanea della valvola aortica, è indubbiamente un grosso passo avanti nella terapia delle valvulopatie. Non solo, in quanto procedura meno invasiva di un intervento chirurgico tradizionale potrebbe persino impersonare la filosofia del “less is more”. Ci sono però alcuni aspetti inerenti alla nascita e ai primi anni di sviluppo della metodica che possono a buon diritto essere annoverati come esempi di overtreatment, data una applicazione incongrua e troppo estensiva da parte di alcuni centri.

Facciamo quindi un passo indietro. L’idea di sostituire una valvola aortica per via percutanea senza rimuovere quella vecchia, ridotta a un blocco di calcio è del geniale Alain Cribier che, in un attimo, ha fatto passare in secondo piano decenni di ricerche, tecnologia, progressi dei cardiochirurghi nel campo della sostituzione valvolare aortica. Il trial che ha “sdoganato” la procedura di sostituzione percutanea è lo studio Partner, pubblicato nel 2010 (53). I pazienti vennero divisi in due coorti: nella prima vennero inclusi quelli inoperabili per un rischio troppo elevato, nei quali la TAVI venne confrontata con un approccio medico conservativo; nella seconda vennero inclusi pazienti ad alto rischio cardiochirurgico e vennero confrontati con quelli sottoposti ad intervento tradizionale. Il risultato del trial fu un indubbio vantaggio della TAVI nella prima coorte, quella dei pazienti inoperabili, nei quali la mortalità a un anno della TAVI fu del 30.7% contro il 50.7% della terapia medica, a fronte di un’incidenza di ictus doppia rispetto ai controlli. Nella seconda coorte la mortalità a un anno dei pazienti sottoposti a TAVI e di quelli sottoposti a chirurgia tradizionale fu sovrapponibile (24.2 vs 26.8%) ma con un’incidenza di ictus doppia per chi venne trattato con TAVI. Considerati tali dati, l’assenza di follow-up a lungo termine ed il costo decisamente più elevato, sarebbe stato logico e auspicabile un atteggiamento estremamente attento e limitato alla gestione dei pazienti effettivamente inoperabili: pazienti molto anziani, con molteplici comorbidità ed un rischio operatorio improponibile. Si instaurò invece, tra i cardiologi interventisti, un clima di euforia collettiva per la prospettiva di riuscire a trattare, dopo 15 anni di contesa sul trattamento interventistico/cardiochirurgico nella cardiopatia ischemica, anche i pazienti affetti da stenosi aortica. Il dato di fatto è che alcuni centri raggiunsero casistiche di svariate centinaia di casi sostenibili solo sulla base di una “estensione” delle indicazioni corrette legate alla effettiva inoperabilità del paziente. Questa estensione delle corrette indicazioni costrinse le amministrazioni sanitarie pubbliche a vigilare su un ampliamento delle indicazioni della TAVI dai pazienti con rischio chirurgico elevato a quelli a rischio intermedio o basso. Questo comportamento avrebbe portato il numero di pazienti per i quali sarebbe proponibile una procedura di TAVI nei paesi occidentali da 290000 a 730000, una cifra proibitiva per i sistemi sanitari pubblici ai costi dei primi anni della procedura (40900/49800 euro contro i 23700 euro dell’intervento cardiochirurgico) (54-55).

In Belgio venne posto sotto osservazione il comportamento dei curanti per verificare se le procedure di TAVI proposte fossero corrette e conseguentemente rimborsabili. I risultati di questa osservazione coordinata da Van Brabandt vennero pubblicati nel 2012 sul British Medical Journal in un articolo che ha dell’incredibile (56).

Il primo punto degno di interesse era che solo il 10% dei pazienti di quelli che erano in lista di attesa fossero in linea con le indicazioni dello studio Partner.

Venne poi svelato un conflitto di interessi del principale investigator dello studio Partner, Martin Leon. Quest’ultimo aveva reso pubblico il guadagno derivante dalla vendita alla Edwards della compagnia che aveva fondato, la Percutaneous Valve Technologies. Non aveva però reso pubblico il dato sulla rilevante compartecipazione economica che avrebbe avuto al raggiungimento di tre obiettivi primari: 1) trattamento con successo dei primi 50 pazienti, 2) autorizzazione europea, 3) una limitata autorizzazione americana.

Fu inoltre segnalato un bias importante dello studio Partner a favore del gruppo TAVI che conteneva pazienti con minori comorbidità, minori calcificazioni aortiche, più basso indice di fragilità e minore incidenza di attacchi cardiaci pregressi.

Infine, ed è questo l’aspetto più intrigante della vicenda, venne posta in evidenza anche la mancanza di trasparenza da parte della casa produttrice del dispositivo, la Edwards, che non aveva pubblicato uno studio di follow-up con dati sfavorevoli nei confronti della TAVI: in 90 pazienti inoperabili randomizzati a TAVI e a terapia standard era stato osservato un netto aumento di mortalità a un anno per il gruppo TAVI (34.3 vs. 21.6%) (Figura 34). I tentativi del gruppo coordinato da Van Brabandt per avere accesso a questi dati non ebbero successo; la Edwards, proprietaria dei dati avendo commissionato lo studio, non rispose ed andarono a vuoto tentativi di interlocuzione con la FDA (Food and Drugs Administration) e con il NEJM (New England Journal of Medicine) che aveva precedentemente pubblicato lo studio Partner.

Questa vicenda pone alla ribalta la questione, su cui frequentemente si dibatte, se sia giusto che la proprietà dei dati sia esclusivamente dell’azienda che promuove lo studio, e non se ne debba invece accettare la pubblicazione, che sia o meno favorevole all’azienda in questione, per trasparenza e miglioramento della qualità delle cure (57). Se ricordiamo quanto successe alla NMT Medical quando consentì la pubblicazione del trial a lei non favorevole sulla chiusura percutanea del PFO, e pagò con questo la sua stessa esistenza dato il conseguente fallimento, ci rendiamo ancor più conto di quanto la medicina attuale viaggi su dei binari stretti tra il rendere pubblici dei dati e mettere in pericolo con questo l’esistenza stessa e il profitto di un’azienda, e l’occultarli, salvando in tal modo dei posti di lavoro ma non rivelando la possibile inefficacia o nocività di un trattamento o di un device e mettendo conseguentemente a repentaglio la sicurezza dei pazienti stessi. Ulteriore riprova di come la salute e il profitto sono collegati a doppio filo e non sempre i due interessi vanno nello stesso senso.

Il tema è dibattuto anche sulle riviste scientifiche. Il British Medical Journal, che in passato aveva già deciso di ‘bandire’ le ricerche sostenute dalle compagnie del tabacco, ha recentemente proposto un dibattito fra Richard Smith, direttore di Patients Knows Best, Peter Gotzsche, direttore del Nordic Cochrane Centre di Copenhagen, e Trish Groves, Head of Research dello stesso Bmj riguardo al tema se le riviste scientifiche dovrebbero smettere di pubblicare studi finanziati dalle industrie farmaceutiche. Argomento di primaria importanza, se pensiamo che attualmente due terzi dei trial che appaiono su riviste come Lancet o New England Journal of Medicine proviene dal mondo industriale. I primi due discussant si dicono favorevoli a dire addio ai trial finanziati dalle imprese del farmaco in quanto mirati solo ad aumentare le vendite dei medicinali. Per la Groves, invece, ci sono motivi validi per non farlo. “Sappiamo che ci sono probabilità molto maggiori che i trial clinici finanziati dall’industria riportino risultati positivi, rispetto agli studi finanziati da enti pubblici”, ricordano i primi due esperti in un articolo online. “La ragione è ovvia – dicono – e cioè che la differenza fra un’analisi onesta e una meno onesta vale miliardi di euro”. E, viceversa, circa la metà dei lavori, e in questo caso di parla di studi che danno risultati negativi, non viene pubblicata (vedi l’appena citata prosecuzione dello studio Partner). Secondo la Groves, invece, “le imprese farmaceutiche producono e commercializzano prodotti che comunque mirano a migliorare la salute. Chiaramente ci sono delle preoccupazioni, se si pensa che solo un farmaco su 10 dei nuovi che arrivano in commercio ha benefici sostanziali per i pazienti. Ma abbiamo a disposizione diversi strumenti per massimizzare la trasparenza scientifica ed etica dei lavori scientifici” che provengono dall’industria. E dunque, piuttosto che bandirli, si dovrebbe semplicemente rafforzare questi strumenti e renderli più stringenti. 

Tornando alla TAVI, in ogni caso, oggi come oggi l’efficacia della metodica è indiscutibile; esistono follow up ormai a dieci anni di distanza che ci tranquillizzano sulla durata delle protesi; la concorrenza tra le varie case produttrici ha fatto sì che i prezzi delle protesi percutanee si siano ridotti sebbene non ancora a livello di una protesi chirurgica e abbiano quindi reso la metodica economicamente più sostenibile; e inoltre una complicanza temibile delle prime protesi, cioè la presenza di rigurgiti paraprotesici significativi causati dai varchi tra i blocchi di calcio della vecchia valvola compressa contro le pareti aortiche è sempre meno presente, in quanto il disegno delle nuove protesi riesce a minimizzare tali rigurgiti, la cui presenza impatta sensibilmente sulla sopravvivenza a lungo termine.

Conclusioni

Indipendentemente dalle condizioni economiche del servizio sanitario, dalla ricchezza del paese nel quale tale sistema sanitario opera, e a maggior ragione indipendentemente dalle possibilità di spesa del paziente e dalla presenza o meno di un’assicurazione che possa sostenere una spesa medica, è opportuno iniziare a pensare che non sempre un eccesso di diagnosi o un eccesso di cura sia sempre e comunque di beneficio per il paziente (58). La diagnosi precoce è sicuramente un aspetto della medicina preventiva, ma l’eccesso di diagnosi può innescare un circolo vizioso che porta sia il medico che il paziente alla ricerca sempre più spasmodica di una malattia che non avrebbe mai creato alcun problema al paziente (Figure 35 e 36) (3).

Prevenzione vuole dire sì diagnosi precoce ma vuole dire soprattutto cercare di promuovere uno stile di vita corretto, sia come alimentazione che come attività fisica, astensione da abitudini dannose, attenzione all’ambiente. Non sempre le cure più costose o più accattivanti da un punto di vista mediatico sono anche le più efficaci. L’eccesso di diagnosi e l’eccesso di trattamento sono una delle maggiori determinanti di spreco del sistema sanitario moderno e possono essere inutili quando non addirittura dannose per il paziente e per la società (pensiamo ad esempio alla crescente antibioticoresistenza secondaria a un uso spesso ingiustificato degli antibiotici di ultima generazione)(59). Prendersi cura del paziente vuole dire anche ragionare su tutte le possibili alternative terapeutiche e informarlo con precisione ed onestà su quali sono i benefici attesi di una certa procedura, quali sono le possibili alternative e a cosa può andare incontro non sottoponendosi a tale procedura (58). E in un’epoca di ristrettezze economiche e tagli alla sanità l’evitare l’eccesso di diagnosi e il ricorrere alle terapie più economiche in tutti quei pazienti nei quali non vi è alcuna diferenza di outcome tra le diverse opzioni terapeutiche può consentirci di destinare l’eccesso di spesa ai pochi e selezionati casi nei quali effettivamente “More is More”, cioè una cura più costosa ed esclusiva porta a un miglioramento della prognosi.

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