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Prevenzione per l’uomo, riabilitazione per il pianeta

Un invito all’azione per i medici

Basterebbero due misure efficaci di prevenzione individuale (non mangiare carne rossa e fare più attività fisica) per contrastare efficacemente il cambiamento climatico

Riassunto

Il nostro pianeta è sull’orlo della sesta estinzione di massa, la prima causata direttamente dall’uomo. Ci stiamo avviando a una condizione di irreversibilità e ci dobbiamo impegnare tutti per invertire la rotta. Cosa possono fare i medici? Due misure di prevenzione individuale, universali per tutte le malattie, una corretta alimentazione (priva in particolare di carne rossa) e l’attività fisica, sono in grado di aumentare l’aspettativa di vita di oltre 12 anni. Ma non solo, possono contribuire in maniera sostanziale alla riduzione delle emissioni nocive. Infatti i settori dell’alimentazione e quello dei trasporti sono responsabili del 50% delle emissioni. Gli allevamenti intensivi per la produzione di carne rossa contribuiscono in modo decisivo ai cambiamenti climatici. Se tutte le persone sostituissero legumi alla carne rossa negli Stati Uniti si raggiungerebbe il 75% degli obiettivi del protocollo di Parigi, e nel mondo il 50%. La restante quota si potrebbe ottenere riducendo per quanto possibile i viaggi in macchina e sostituendoli con il movimento a piedi o in bicicletta. È stata elaborata una dieta in grado di sfamare in modo sostenibile dal punto di vista ambientale dieci miliardi di persone evitando che un miliardo muoia di fame e due miliardi si ammalino di patologie connesse a obesità e diabete. Questa è una chiamata all’azione: come procedere per fare sì che attraverso la nostra professione di medici versati alla prevenzione si possa ottenere anche il risultato più ambizioso di contribuire a salvare il pianeta dal cambiamento climatico.

Abstract

Our planet is in a condition of disease that is approaching irreversibility, and man is the first leaving creature able not only to change the course of nature but also to set the stage for extinction by his own efforts. Physicians never discuss of planetary health – they think they have to focus on human health. They don’t realize that these two aspects, the planetary and the individual one, are closely related, and aggressively pursue prevention of each human being can be the way to save the planet. Prevention fits for all diseases, as regards healthy eating (reduce intake of red meat) and physical activity over all. But those measures of individual prevention can also reduce GHG emissions. Particularly livestock sector is a major player, responsible for a great percentual of anthropogenic emissions, use of land and water, deforestation. Substituting beans for beef could achieve 46 to 74% of the reduction needed to meat GHG target. Commuting by foot or by bicycle instead of car could take care of the rest. EAT-Lancet commission drew up a diet able to feed in a sustainable way ten billion people, avoiding deaths from hunger and from obesity. Prevention of man can lead to rehabilitation of the planet.

Parole chiave: cambiamento climatico, carne rossa, alimentazione, attività fisica

Key words: climate change, healthy diet, red meat, physical activity

Introduzione

Durante la Giornata Mondiale della Terra nel 2014 l’ex-Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban-Ki-Moon disse “Mi appello a tutte le persone, ovunque, perché alzino la loro voce. Parlate a nome di questo pianeta, la nostra unica casa. Prendiamoci cura di Madre Terra in modo che essa continui a prendersi cura di noi, come ha fatto per millenni”. Questo vuole essere un piccolo contributo che inviti all’azione tutti i medici, perché spingere sulle misure di prevenzione individuale porta come effetto indiretto ma fondamentale quello di contribuire in modo sostanziale al contenimento del cambiamento climatico.

  1. Gli effetti dell’Antropocene

Si intende per Antropocene l’era geologica delimitata come il tempo nel quale le attività umane hanno iniziato a condizionare in modo sostanziale l’ambiente terrestre. Misure di consumo nel tempo (utilizzo dell’acqua, produzione di carta e plastica, consumo di fertilizzanti, trasporti, uso dell’energia) e misure dell’impatto dell’uomo sui sistemi naturali (degradazione della biosfera terrestre, pesca, concentrazione di anidride carbonica, acidificazione degli oceani, perdita delle foreste tropicali) consentono di posizionare attorno al 1950 l’inizio dell’Antropocene (1).

In particolare, dati della NASA dimostrano come la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera abbia fasicamente oscillato tra le 180 e le 300 parti per milione, ma non si si sia mai innalzata oltre le 300 parti per milione fino al 1950, anno nel quale questa soglia è stata superata. Da allora in poi i livelli di anidride carbonica si sono innalzati in modo verticale, come mai era successo nei 400.000 anni precedenti, a riprova che il riscaldamento climatico sia inequivocabile e che l’intervento dell’uomo abbia contribuito in modo sostanziale (2) (Figura 1).

Per nutrirci noi ci appropriamo annualmente di circa il 40% della superficie terrestre libera dai ghiacci e dai deserti per utilizzarla per pascoli e coltivazioni, utilizziamo circa metà dell’acqua dolce, principalmente per irrigare i campi, deprediamo i mari con una pesca intensiva. In questo processo abbiamo distrutto dai 7 agli 11 milioni di kmq delle foreste e inquinato più del 60% dei fiumi. Questi e altri processi stanno conducendo le specie all’estinzione in quella che viene chiamata la “sesta estinzione globale”, la prima causata direttamente dalla mano dell’uomo (1).

È evidente che l’estinzione di diverse specie sia direttamente causata dal cambiamento climatico. Si pensi, ad esempio, alla strage di koala negli incendi che hanno recentemente interessato l’Australia, o alla drammatica riduzione nel numero dei pinguini dovuta al riscaldamento della temperatura in Antartide. L’estinzione delle specie animali ha peraltro una ricaduta importante anche sulla salute dell’uomo. Una importante riduzione degli animali impollinatori, ad esempio, determinerà un ridotto apporto di vitamina A, folati, frutta, vegetali, noccioline e semi e un conseguente marcato aumento delle malattie non trasmissibili. La cessazione completa dei servizi degli animali impollinatori determinerà da 1 a 4 milioni di morti all’anno in più (3), secondo le stime più ottimistiche (quelle pessimistiche sostengono, come diceva Albert Einstein, che se le api scomparissero dalla faccia della terra alla specie umana non resterebbero che quattro anni di vita…).

L’accordo di Parigi del 2015 si pone come obiettivo un innalzamento della temperatura contenuto entro 1.5°C. La stima è strettamente legata alla previsione di ciò che avverrebbe in caso di aumenti superiori: un aumento di 2°C porterebbe al ritiro dei ghiacciai, danneggiamento della barriera corallina, migrazioni e colpi di calore; un innalzamento di 3°C determinerebbe un aumento del livello dei mari, l’estinzione del 20-30% delle specie vegetali e animali, un aumento delle infezioni e la migrazione di intere popolazioni; un aumento di 4°C disastri naturali, destabilizzazione dei sistemi sociali e guerre. Oltre i 4°C la sopravvivenza di una società quale noi la intendiamo è sostanzialmente impossibile. Il fenomeno della migrazione è strettamente legato ai cambiamenti climatici; si prevede che nel 2100 un miliardo di persone – il 10% della popolazione terrestre – sarà costretto a migrare.

Alla fine del 2017 due scienziati, Y. Xu e V. Ramanathan, hanno tra l’altro stimato che nei prossimi vent’anni il cambiamento climatico sarà più veloce e aggressivo di quanto ipotizzato in precedenza, e potrebbe portare a effetti catastrofici già entro il 2050 (4-5). Sulla base di questa evidenza il governo australiano ha commissionato uno studio che delineasse lo scenario di cosa succederà se entro il 2050 il riscaldamento globale dovesse superare i 3 gradi centigradi, concludendo sostanzialmente che “la scala di distruzione è al di là di ogni capacità di modellizzazione, con l’elevata probabilità che la civiltà umana giunga alla fine” (6-7).

  1. Prevenzione individuale: alimentazione e attività fisica

È evidente come non esista una diversa prevenzione per ciascuna malattia ma come vi sia un’unica prevenzione per tutte le malattie (8), uno stile di vita “virtuoso” che passa attraverso corretta alimentazione e attività fisica. Possiamo trovare la corretta alimentazione e l’attività fisica nelle linee guida per la prevenzione del diabete mellito, della cardiopatia ischemica, dell’ipertensione arteriosa, dello scompenso cardiaco, dell’insufficienza renale cronica, dei tumori, della broncopneumopatia cronica ostruttiva…

Uno studio condotto negli Stati Uniti ha stimato come l’adesione a uno stile di vita virtuoso possa aumentare l’aspettativa di vita sino a 14 anni nelle femmine e 12.2 anni nei maschi (9).

2a) Effetti di una corretta alimentazione: il consumo di carne rossa lavorata e non

Si intende per corretta alimentazione un consumo maggiore di frutta, verdura, frutta secca, legumi, pesce, grano, cereali, e un utilizzo minore o assente di zucchero e carne rossa. In particolare il consumo di carne rossa è stato individuato da molti studi come nocivo per la salute, a partire dal “warning” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2015, che aveva bollato la carne rossa come probabilmente cancerogena (classe IIa) e la carne rossa lavorata come sicuramente cancerogena (classe I) (10). È sicuramente vero che la lavorazione della carne a maggiore rischio di sviluppo di sostanze cancerogene e aterogene sia quella tipica della cucina americana e occidentale rispetto a quella mediterranea, e infatti molti studi che hanno dimostrato un aumento della mortalità in chi fa maggiore uso di carne rossa si riferiscono a popolazioni statunitensi. Anche solo limitandoci all’esame di studi pubblicati nel 2019 e nel 2020 le evidenze sono numerose. Yan Zhen et al da due coorti prospettiche del Nurses’ Health Study and the Health Professionals Follow-up Study hanno pubblicato sul British Medical Journal la stima che mezza porzione quotidiana di carne rossa (lavorata e non) provochi un aumento della mortalità del 10% (rispettivamente 13 e 9%) (11). H. Kim et al hanno esaminato una coorte di donne e uomini di mezza età provenienti dall’ARIC (Atherosclerosis Risk in Community) Study documentando come le diete ricche in prodotti vegetali e povere in cibi animali siano associate a un rischio più basso di morbidità e mortalità cardiovascolare (12). Analoga evidenza di un aumento, seppur lieve, di incidenza di malattia cardiovascolare e mortalità per tutte le cause per un aumentato consumo di carne rossa lavorata e non è emersa anche da uno studio di sei coorti che facevano parte del Lifetime Risk Pooling Project, comprendente ARIC (Atherosclerosis Risk in Communities study), CARDIA (Coronary Artery Risk Development in Young Adults study), CHS (Cardiovascular Health Study), FHS (Framingham Heart Study), FOS (Framingham Offspring Study) e MESA (Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis); un aumentato consumo di pollame determinava anch’esso un’aumentata incidenza di malattia cardiovascolare ma non di mortalità, mentre un aumentato consumo di pesce non si associava ad aumento di mortalità e morbilità (13). Ma anche in studi su popolazioni europee e giapponesi, nelle quali il processo di lavorazione della carne è meno tossico di quello americano, è stato evidenziato un effetto negativo del consumo di carne rossa. Su tutti spicca lo studio EPIC (14), condotto su oltre quattrocentomila pazienti residenti in nove paesi europei, più di un terzo dei quali proveniva dalla fascia mediterranea, che ha evidenziato come il consumo di carne rossa sia positivamente associato con il rischio di sviluppare cardiopatia ischemica. (Figura 2). Anche uno studio prospettico su oltre settantamila pazienti da una coorte giapponese (15) ha documentato come un maggiore introito di proteine vegetali sia associato con una minore mortalità totale e cardiovascolare.

Una delle cause di nocività della carne rossa può risiedere negli aumentati livelli sistemici di TMAO (trimethylamine N-oxide), metabolita aterogeno generato dal microbiota intestinale a partire dalla carnitina; tale aumento è reversibile entro quattro settimane dal cambiamento delle abitudini alimentari (16). La dieta mediterranea determina rispetto alla classica dieta occidentale la formazione di un microbiota più favorevole, con conseguente riduzione dell’escrezione urinaria di TMAO (17-18).

2b) Effetti dell’attività fisica

Le evidenze che attestano i benefici dell’attività fisica sono altrettanto numerose, e ancora più radicate nel tempo. Nella metanalisi di Woodcock del 2011, condotta su 22 studi che hanno arruolato un totale di quasi 978000 persone, una attività fisica di intensità moderata condotta per 2.5 ore/settimana (intesa come mezz’ora al giorno per cinque giorni alla settimana) rispetto all’assenza di attività fisica si associava a una riduzione della mortalità del 19%, che diventava 24% se si praticavano 7 ore di attività fisica moderata/settimana. Anche il semplice camminare si associava a un beneficio sulla sopravvivenza, benché più modesto (19). In uno studio danese molto più datato, che distingueva tra attività fisica effettuata per svago, per sport o per lavoro, i maggiori benefici venivano dimostrati in coloro che oltre a fare sport per svago utilizzavano la bicicletta anche per andare al lavoro, con una riduzione di mortalità che arrivava addirittura al 40% (20-21). Più recentemente sono stati valutati i cambiamenti di attività fisica nel tempo in soggetti di mezza età o più anziani, sani o già affetti da malattie cardiovascolari o tumori, ed emerge la constatazione che sia che si parta da livelli di sedentarietà, sia che si parta da livelli di attività fisica medi o alti, l’incremento dell’attività fisica genera un beneficio aggiuntivo rispetto al mantenere l’attività fisica ai livelli pre-test e ancora di più rispetto al ridurre l’attività fisica (22). Un’altra considerazione fondamentale che emerge da vari studi negli ultimi anni è che non vi sia una età limite; i benefici si ottengono anche in chi inizia a fare attività fisica in età avanzata. È stato dimostrato in soggetti di oltre 60 anni di età (nei quali un aumento della frequenza di attività fisica moderata/intensa porta a una riduzione nel rischio di malattie cardiovascolari fino all’11% mentre una riduzione della frequenza di attività fisica porta a un aumento nel rischio del 27%) (23); è stato dimostrato nelle donne in età postmenopausale (nelle quali livelli più elevati di attività fisica ricreazionale, come il camminare, comporta un rischio minore di scompenso cardiaco) (24-25) e persino nelle donne più anziane (età media 78.5 anni) (26). Ogni movimento conta.

Una domanda che è legittimo porsi è: fare attività fisica in un contesto di inquinamento quale quello presente nelle città nelle quali abitiamo dà comunque un beneficio o il rischio di esporsi all’inquinamento ambientale controbilancia il benessere dato dall’attività fisica? Tainio & coll hanno studiato il bilancio rischio – beneficio in diverse condizioni di attività fisica e di inquinamento ambientale, e ciò che hanno desunto è che nelle condizioni di inquinamento ambientale tipiche di un contesto urbano (PM2.5 50 mcg/m3), e per una attività fisica come quella che si pratica abitualmente per svago e pendolarismo, i benefici superano abbondantemente i rischi, con un punto di massimo vantaggio a 75 min di ciclismo quotidiano e un breakeven point, oltre i quali i danni eccedono i vantaggi, di 300 min di ciclismo/die (Figura 3). Se si sale a condizioni di inquinamento estremo (PM2.5 100 mcg/m3) i danni superano i benefici dopo 90 minuti di ciclismo/die, o 10 ore di camminata (27).

  1. Riabilitazione del pianeta: cause del cambiamento climatico

Ma come si inserisce quanto detto finora dal punto di vista ambientale? I settori responsabili della produzione di gas serra sono per il 31% il settore dell’alimentazione (e più specificatamente 17,5% spetta a carni e derivati e latticini), per il 18% i trasporti, per il 24% il riscaldamento e per il 27% altri settori. Quindi il 50% circa della produzione di gas serra è legata ad alimentazione e trasporti, e la quota preponderante che riguarda l’alimentazione è ascrivibile agli allevamenti intensivi di bovini e in minor misura di ovini e suini (28).

3a) L’insostenibile peso ambientale degli allevamenti intensivi (“mangiare come se non ci fosse un domani”)

Il peso ambientale degli allevamenti intensivi è noto da oltre dieci anni. Già nel 2006 un report della FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) mise in evidenza che l’allevamento del bestiame è di gran lunga il settore a più elevato consumo antropogenico di suolo. Tra suolo utilizzato direttamente per l’allevamento degli animali e terreno occupato per la produzione di cereali destinati al nutrimento del bestiame questo settore utilizza il 70% di tutte le terre attualmente destinate all’agricoltura e il 30% della superficie terrestre libera da acqua e ghiacci. Il settore è inoltre il maggiore responsabile della deforestazione (il 70% delle zone deforestate della foresta amazzonica è ora occupata dai pascoli, e la produzione di cereali copre buona parte del resto). L’allevamento del bestiame utilizza l’8% delle riserve d’acqua del pianeta ed è il maggiore responsabile della perdita di biodiversità. Senza contare l’inquinamento dovuto al letame, al rilascio nell’ambiente di fertilizzanti, disinfestanti, pesticidi, antibiotici e ormoni (29). L’allevamento del bestiame viene stimato essere responsabile del 18% delle emissioni di gas serra, del 9% della produzione di CO2, del 37% del metano, del 65% dell’ossido nitrico e del 64% dell’ammoniaca (30). Dopo tre anni dal rapporto della FAO peraltro alcuni Autori che avevano anche partecipato al report precedente pubblicarono una ulteriore analisi patrocinata dal World Watch Institute, nella quale venne puntualizzato che il report della FAO non aveva preso in esame svariati parametri, quali la respirazione del bestiame e il mancato vantaggio in termini di fotosintesi legato alla deforestazione (sostanzialmente era stata valutata la quota di CO2 direttamente prodotta dagli incendi ma non la quota di CO2 che sarebbe stata eliminata con la fotosintesi qualora quelle piante non fossero state distrutte). Prendendo in considerazione anche questi parametri la quota di inquinamento ambientale direttamente ascrivibile all’allevamento intensivo arriverebbe addirittura al 51% (31). Quale che sia il numero corretto, variabile tra il 14.5 e il 51%, si tratta ovviamente di una percentuale enorme. E sono ormai molteplici le evidenze che in termini di Carbon, Water ed Ecological footprint, rispettivamente in g CO2eq, litri d’acqua e mq globali per kg di alimento, la carne bovina sia estremamente più dispendiosa di tutti gli altri alimenti. Si vedano a questo proposito sia i dati della BCFN – Barilla Center for Food & Nutrition – Foundation 2015 (32), sia i dati del Report del World Resources Institute del dicembre 2018 “Creating a Sustainable Food Future. A Menu of Solutions to Feed Nearly 10 Billion People by 2050”, redatto allo scopo di rispondere alla più importante delle domande: “come potrà il mondo adeguatamente nutrire quasi dieci miliardi di persone nel 2050 in modo da combattere la povertà, consentire al pianeta di raggiungere gli obiettivi climatici e ridurre la pressione sull’ambiente in senso lato” (33) (Figura 4). La logica ricaduta di quanto si è detto, nel momento in cui si vanno ad esaminare i vari regimi alimentari da un punto di vista prettamente ambientale, è che la dieta vegana, seguita da quella vegetariana, da quella pescetariana e in generale dai regimi alimentari come la dieta mediterranea maggiormente basati su un consumo di proteine e alimenti vegetali rispetto a quelli animali offrano tutte un vantaggio rispetto alla classica dieta occidentale in termini di emissioni nocive e di consumo di terra (34)(Figura 5).

3b) l’inizio della consapevolezza da parte dei medici, e la necessità di passare all’azione

Risale alla fine del 2017, con l’editoriale pubblicato sul British Medical Journal da un epidemiologo, John D. Potter, il primo tentativo di porre in correlazione la salute individuale con quella del pianeta. “Produrre un chilo di proteine animali richiede più di 110000 litri d’acqua (le stime in effetti variano tra i 40000 e i 110000, comunque una quantità enorme); l’allevamento di carne rossa è responsabile della produzione del 37% del metano antropogenico (che ha un potenziale di riscaldamento 23 volte superiore alla CO2), del 65% dell’ossido nitroso (che ha un potenziale di riscaldamento pari a 300 volte la CO2) e del 64% delle emissioni di ammoniaca, che contribuisce significativamente a piogge acide e acidificazione degli ecosistemi. (…) La comunità scientifica conosce il problema, sa che il sovraconsumo di carne è ugualmente nocivo alla salute individuale e alla salute del pianeta, conosce anche le modalità per ridurre il danno su entrambi, ma queste conoscenze non conducono poi all’azione” (35). E questo è il passo successivo: “come” passare all’azione. “Dobbiamo parlare della carne”, recita un secondo editoriale pubblicato su Lancet esattamente un anno dopo. “Per fare sì che il nostro desiderio di mangiare tutto quello che vogliamo si bilanci con la necessità di preservare l’ecosistema che ci sostiene. La conversazione deve iniziare subito” (36). E la prima cosa che si deve fare per cominciare la discussione è quantizzare il problema, e le possibili soluzioni. Cosa si riuscirebbe a ottenere se, utopisticamente, tutti sostituissero i fagioli alla carne, sia in termini di calorie che di proteine? I ricercatori della Loma Linda University hanno stimato che anche solo con questo gesto isolato verrebbe raggiunto negli Stati Uniti il 74% dell’obiettivo di riduzione delle emissioni, e a livello mondiale il 46% (Figura 6). La riduzione delle emissioni sarebbe inoltre prevalentemente legata alla riduzione del CH4, che rispetto alla CO2 presenta una emivita atmosferica molto più breve (9 vs 100 anni). Questo fa sì che se si vuole ottenere un vantaggio immediato sulle emissioni è molto più redditizio puntare sulla riduzione del CH4 che su quella della CO2, e quindi sulla riduzione degli allevamenti intensivi piuttosto che sui trasporti o sul riscaldamento domestico; i vantaggi sull’atmosfera sarebbero tangibili entro una decina d’anni (37). E per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015 sul controllo delle emissioni, non essendo sufficiente la riduzione del consumo di carne rossa, si può agire sull’altro grosso settore che coinvolge la salute individuale e quella collettiva, il settore dei trasporti.

3c) quanto si può guadagnare in termini ambientali con l’aumento dell’attività fisica?

Anche sul tema dell’attività fisica è importante quantizzare il problema: che miglioramento è lecito attendersi in tema di controllo delle emissioni? Un primo dato viene da Stoccolma. È stato calcolato che circa 111000 pendolari avrebbero la capacità fisica e la possibilità pratica di raggiungere il posto di lavoro in bicicletta anziché in macchina, calcolando in mezz’ora di pedalata il tempo limite; questo porterebbe a una riduzione dell’inquinamento che determinerebbe un guadagno annuo di 449 anni di vita salvati (38). Un recente report della Commissione Mobilità e Trasporti della Comunità Europea stima che la una riduzione di un terzo dei viaggi in macchina determinerebbe il 30% in meno di ingorghi, il 25% in meno di inquinamento legato ai trasporti, il 36% in meno di emissioni di monossido di carbonio (CO) e il 56% in meno di emissioni di NO2. Le misure di drastica riduzione del traffico adottate in alcune città negli scorsi decenni hanno in effetti confermato questi dati. A Siviglia ad esempio tra il 2006 e il 2012 è stata ottenuta una riduzione del 29% della media della concentrazione di NO2, una riduzione del 20% della concentrazione media di PM10 e del 74% del numero di giorni nei quali tale concentrazione ha sforato i limiti imposti dai regolamenti dell’epoca (39).

3d) Reverse the paradigm

La Commissione sul Cambiamento Climatico del Governo Inglese (Committee on Climate Change) ha predisposto come obiettivo per il 2050 la completa eliminazione dell’emissione di gas tossici nel Regno Unito. In un editoriale recentemente pubblicato su Lancet la spinta verso il divieto ai combustibili fossili, l’incentivo a dotarsi di auto elettriche, la riduzione degli allevamenti intensivi e la conseguente maggiore pulizia dell’aria si ritiene che portino, come “effetti collaterali”, a comportamenti virtuosi quali una maggiore attività fisica e una dieta più sana (40). Siamo medici, abbiamo l’obbligo e la convinzione che si debba puntare sulla prevenzione. Perché allora aspettare che attività fisica e alimentazione corretta siano effetti collaterali di misure di contenimento delle emissioni nocive? Perché non dare il proprio contributo affinché promozione dell’attività fisica e di una alimentazione più sana siano causa, e non conseguenza di un ambiente più pulito? Rovesciamo il paradigma!

  1. Cosa fare, come farlo

Nel corso degli anni a fronte di un evidentissimo incremento delle autovetture circolanti e dei chilometri percorsi si sono notevolmente ridotte le morti per incidenti stradali. Questo lusinghiero risultato è stato ottenuto con misure omnicomprensive, riguardanti il guidatore (istruzione, sanzioni sull’uso del cellulare, casco), il veicolo (airbag, cinture di sicurezza, seggiolini, revisione), la strada (segnaletica, limiti di velocità, guard rails), la cultura in generale (campagne educative sulla guida in stato di ubriachezza o sull’uso del cellulare). Allo stesso modo occorre comportarsi in questo caso: espandere il campo d’azione della salute pubblica per includervi la gestione dei sistemi naturali del pianeta: come ci nutriamo, come costruiamo le nostre città, come produciamo energia, come proteggiamo animali e biodiversità marina e terrestre (1). La salute pubblica, la salute umana deve essere intimamente connessa alla “salute planetaria”, e anche questa deve diventare interesse dominante dei medici (41) (si veda a questo proposito la “Clinicians for Planetary Health page sul sito web della “Planetary Health Alliance”) (42).

Una strategia aggressiva di controllo delle emissioni costa, ma i co-benefici in aggiunta al miglioramento della qualità dell’aria, in termini di miglioramento a lungo termine della salute pubblica (con proiezione al 2050), coprirebbero tra il 75% e il 450% delle spese aggiuntive (43).

Come quindi è opportuno comportarsi? Innanzitutto, gli stessi medici, in prima persona, devono adottare comportamenti virtuosi ad esempio per quanto riguarda l’attività fisica, incorporando brevi momenti di attività moderata/intensa nel corso della loro giornata e della loro professione (44).

In secondo luogo devono includere nell’ambito delle loro visite raccomandazioni riguardanti l’alimentazione e l’attività fisica, cosa che attualmente – per lo meno negli USA – succede solo nel 12% delle visite (20% nel caso di soggetti diabetici, dislipidemici e cardiopatici) (45), e per di più in modo non certo “aggressivo” ma solo come complemento a raccomandazioni diagnostiche o terapeutiche che talvolta potrebbero essere addirittura evitate (46).

Devono influenzare per quanto nelle loro possibilità il modo in cui progettare le città, perché è stato ormai ampiamente dimostrato come questo influenzi la possibilità di effettuare attività fisica e conseguentemente la prevalenza di malattie come ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia e diabete mellito. Infatti l’International Physical activity and Environment Network (IPEN) adult study, uno studio condotto in 14 città situate in tutto il mondo, ha dimostrato come la differenza di attività fisica condotta tra chi abita nei quartieri con maggiore possibilità di effettuare attività fisica e chi nei quartieri con minore possibilità varia da 68 a 89 minuti/settimana, che rappresentano il 45-59% dei 150 minuti raccomandati dalle attuali Linee Guida (47). E nel CANHEART (Cardiovascular Health in Ambulatory Care Research Team) Cohort si documenta come dividendo i quartieri in quintili di “walkability”, cioè di possibilità di camminare, chi vive nei quartieri con quintile peggiore presenta un rischio di cardiopatia ischemica a 10 anni maggiore rispetto a chi vive nei quartieri a maggiore possibilità di camminare, con minori livelli di colesterolo HDL, maggiori livelli di pressione arteriosa sistolica e maggiore prevalenza di diabete mellito (48).

Devono comunicare ai pazienti che rinunciare alla carne per uno o più pasti può dare un grosso beneficio alla natura e al clima, ma devono farlo in modo sobrio e omnicomprensivo, unendolo al concetto che fa bene anche alla propria salute, in modo da non ottenere un effetto controproducente da parte dei negazionisti del cambiamento climatico (49). Incontreranno diversi ostacoli e obiezioni: una mancanza di consapevolezza dell’associazione tra consumo di carne e cambiamento climatico, la logica percezione che il proprio consumo di carne di fatto influisca in modo minimale sul contesto ambientale globale, la resistenza a ridurre il consumo di carne legata a considerazioni culturali e sociali, all’idea di benessere connessa al consumo di carne, al piacere del gusto (50). Almeno su questo versante la ricerca ha fatto dei passi avanti notevoli negli ultimi anni, e alcune startup hanno creato prodotti vegetali assolutamente indistinguibili dalla carne grazie alla produzione di eme direttamente dal lievito, sostanzialmente bypassando l’animale e producendo carne con un risparmio del 95% dell’uso di terra, del 74% del consumo di acqua e dell’87% della produzione di emissioni nocive; oltre all’azzeramento di antibiotici e ormoni e ovviamente di tutte le sofferenze causate agli animali dagli allevamenti intensivi. Due di queste startup, Beyond Meat e Impossible Burger, finanziate da miliardari come Bill Gates e Dustin Moskovitz hanno vinto i Champions of the Earth Award dell’ONU del 2018 nella categoria Scienza e Innovazione (51) e hanno già stretto accordi con catene come McDonald’s, KFC e Burger King, con un risvolto mediatico tale da preoccupare i nutrizionisti, dato che a un indubbio vantaggio in termini ambientali e animalistici non corrisponde un apporto nutrizionale ottimale (sono alimenti ricchi di sodio e di eme; quest’ultimo può aumentare i depositi di ferro e favorire il rischio di sviluppo di diabete mellito tipo 2; pur non contenendo colesterolo sono inoltre più ricchi di grassi saturi rispetto agli altri alimenti vegetali come fagioli e lenticchie) (52); anche qualora lo sviluppo industriale dovesse consentirne un utilizzo di massa dovranno quindi essere considerati come prodotti da consumare con morigeratezza.

Una modalità di dissuasione già sperimentata nel caso del fumo di sigaretta sta nella tassazione. Laddove il fumo è stato tassato si è ottenuto un notevole successo in alcuni gruppi di fumatori, quali i ragazzi, i giovani adulti e i soggetti con stato socioeconomico più basso (53). Una equivalente tassazione della carne rossa in relazione ai danni che comporta sulla salute è stata valutata dai ricercatori di Oxford, che hanno stimato un aumento dei prezzi della carne rossa variabile a seconda degli Stati tra lo 0.04% di alcuni stati africani e il 34% di Stati Uniti e alcuni stati europei (Figura 7a), e della carne rossa processata tra lo 0.2% e il 185% di Stati Uniti, Unione Sovietica e alcuni Stati europei tra cui i paesi scandinavi (Figura 7b). Ciò comporterebbe una riduzione della mortalità sino al 26% negli Stati a più alta tassazione (54) (Figura 7c). Da notare che nel calcolo della tassazione sono stati presi in considerazione solo i costi legati alla salute e non quelli ambientali; se si dovesse far pagare la carne rossa anche in relazione alla terra e all’acqua utilizzata (fino a centodiecimila litri d’acqua dolce per un chilo di proteine animali) è ovvio che il prezzo sarebbe di molto superiore.

  1. Vincere la morte per fame e quella per obesità, nel rispetto dell’ambiente

Il peso individuale e ambientale di una corretta alimentazione è stato affrontato da Lancet con la creazione di una commissione, la EAT-Lancet Commission. La domanda a cui la commissione ha dovuto rispondere è la seguente: come poter evitare che su dieci miliardi di persone un miliardo muoia di fame e due miliardi si ammalino per aver mangiato troppo degli alimenti sbagliati, e contemporaneamente come poter nutrire in modo corretto e sostenibile dieci miliardi di persone nel 2050(55)? Sono stati calcolati il fabbisogno energetico ottimale di ciascun individuo, la composizione tipica dei regimi alimentari più favorevoli, il peso ambientale di ciascun alimento in termini di consumo di terra, acqua, perdita di biodiversità, interferenza con i cicli di fosforo e azoto, cambiamento climatico. È stata creata una dieta caratterizzata da una riduzione di più del 50% di carne rossa e zucchero, e un aumento di più del 100% di frutta, frutta secca, vegetali e legumi (Figura 8). Una dieta che ha la capacità di nutrire quasi dieci miliardi di persone nel 2050 in modo sano, così da evitare da 10.8 a 11.6 milioni di morti all’anno per malnutrizione, obesità e malattie correlate, una riduzione della mortalità dal 19 al 23.6% (56). Una dieta che ha un impatto sostanziale sulla mortalità individuale ed è in grado di mitigare il cambiamento climatico. Nell’editoriale correlato gli autori, Lucas e Horton, concludono con una frase illuminante: “La nostra connessione con la natura porta in sé la risposta: se possiamo nutrirci in un modo che funzioni per il nostro pianeta così come per il nostro corpo, il naturale bilanciamento delle risorse del pianeta verrà ripristinato. La natura che sta scomparendo ha in sé la chiave per la sopravvivenza dell’uomo e del pianeta” (55). Prevenzione per l’uomo, riabilitazione per il pianeta.

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Figure

Figura 1 – livelli di anidride carbonica nel corso dei secoli e livelli attuali (da voce bibliografica 2)

Figura 2 – studio EPIC – rapporto di rischio di infarto miocardico non fatale e cardiopatia ischemica fatale con un incremento del consumo di ciascun alimento (da voce bibliografica 14)

Figura 3 – rischio relativo di mortalità per una condizione di inquinamento tipica di un centro urbano. Oltre il tipping point l’attività fisica non produrrà ulteriori effetti benefici, oltre il breakeven point una attività fisica aggiuntiva produrrà un danno per la salute (da voce bibliografica 27)

Figura 4 – utilizzo di terra (in verde) ed emissioni di gas serra (in giallo-arancione) secondari alla produzione di alimenti di origine animale e di origine vegetale (da voce bibliografica 33)

Figura 5 – differenze relative in emissioni di gas serra tra il regime dietetico tipico occidentale e regimi alimentari più sostenibili ; n= numero di studi, mdn=mediana (da voce bibliografica 34)

Figura 6 – riduzione dell’emissione di gas serra se venissero sostituiti fagioli alla carne rossa a livello della popolazione degli Stati Uniti e a livello mondiale, rispetto (barra scura) alla riduzione necessaria per ottemperare al protocollo di Parigi partendo dalle emissioni attuali (da voce bibliografica 37)

Figura 7 – ipotesi di tassazione della carne rossa (pannello a) e della carne rossa lavorata (pannello b) in relazione ai danni della carne sulla salute individuale, escludendo i danni ambientali, sull’esempio di quanto già sperimentato in alcuni Stati per il fumo di sigaretta, e conseguente riduzione percentuale della mortalità (pannello c) (da voce bibliografica 54)

Figura 8 – il regime dietetico proposto dalla EAT-Lancet commission per poter nutrire in modo sostenibile 10 miliardi di persone nel 2050 evitando che un miliardo muoia di fame e due miliardi per avere mangiato troppi degli alimenti “sbagliati” (da voce bibliografica 56)